Susan Lape: Race and Citizen Identity in Classical Athenian Democracy, Cambridge: Cambridge University Press 2010, XIII + 341 S., ISBN 978-0-521-19104-3, GBP 55,00
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La ricerca di Susan Lape muove dalla considerazione che, nel V secolo, i cittadini ateniesi sembrano definire la propria identità sulla base di nascita e discendenza: ciò autorizza a parlare di "racial citizenship". Come precisa l'autrice, il fatto che gli Ateniesi si definiscano in termini razziali non implica che abbiano atteggiamenti razzisti: non si intende infatti classificare l'umanità in gruppi razziali distinti gerarchicamente su basi biologiche e/o culturali, ma piuttosto definire in termini chiari un'appartenenza dalla quale deriva la distribuzione di risorse sia ideali che concrete.
Il I capitolo ("Theorizing citizen identity", 1-60) segue lo sviluppo dell'identità civica ateniese sulla base di una visione "etnico-nazionale", che privilegia parentela e territorio, partendo da Dracone, che nella legge sull'omicidio definisce per la prima volta l'essere Ateniesi, e proseguendo con Solone, le cui riforme, sancendo l'esclusione di schiavi e nothoi, insistono sullo stato di libertà e sulla nascita legittima, e Clistene, che crea strutture atte a verificare la parentela, attraverso la dokimasia dei nuovi cittadini in sede demotica. Nel corso del V secolo teatro, oratoria funeraria e arti figurative promuovono, attraverso il mito dell'autoctonia, l'idea della unità etnica e della solidarietà civica degli Ateniesi, con obiettivi propagandistici diversi, che vanno dal sostegno dell'uguaglianza democratica alla promozione del ruolo imperiale di Atene. La legge di Pericle sulla cittadinanza del 451/50 traduce in norma il mito: l'identità del cittadino, da questo momento, implica qualità ereditarie, non di carattere fisico ma di natura politica e ideale, ed è legata alla nascita libera e legittima da padre e madre ateniesi (in realtà, la legittimità, legata al matrimonio, resta a mio parere incerta e avrebbe forse meritato maggiore attenzione critica).
Alla fine del capitolo viene illustrato lo sviluppo della ricerca, che intende mettere a fuoco l'emergere della concezione razziale della cittadinanza nella commedia antica e nell'oratoria, nello Ione di Euripide, nella storiografia, nella pratica giudiziaria e nelle procedure di naturalizzazione.
Il II capitolo ("The rhetoric of racial citizenship", 61-94) esamina le accuse di essere di origini non ateniesi ricorrenti nella commedia antica e nell'oratoria, con l'intento di suscitare pregiudizio nell'uditorio: la non "ateniesità" comporta infatti la mancanza delle qualità intrinseche richieste al cittadino. Nella commedia, in cui si insiste spesso sulle origini spurie, rimanderebbero a una possibile origine servile anche le indicazioni relative ai mestieri di natura artigianale o mercantile svolti dall'interessato o dai suoi genitori (Cleofonte "il fabbricante di lire"); l'indicazione della professione sostituirebbe il patronimico nella definizione della persona, secondo la modalità di identificazione degli schiavi. L'ipotesi è interessante: mi sembra però che l'allusione all'esercizio di professioni poco qualificate rimandi più semplicemente al pregiudizio nei confronti dei teti, lavoratori salariati, artigiani e commercianti che si mantenevano con mestieri disprezzati, pur essendo di status libero. Quanto all'oratoria, l'analisi si concentra sulle due orazioni demosteniche Contro Aristogitone; egli non è accusato di essere straniero, ma l'idea della possibile acquisizione per via ereditaria di orientamenti antidemocratici conferma l'importanza della discendenza.
Il ruolo della donna nell'assicurare la purezza della discendenza emerge in particolare nel III capitolo ("Euripides' 'Ion' and the family romance of Athenian racialism", 95-136) dall'analisi dello Ione di Euripide, una sorta di drammatizzazione della problematica relativa alla legge di Pericle. Il poeta mette in scena il tema della trasmissione della discendenza autoctona, evidenziando il ruolo femminile nella conservazione delle caratteristiche ancestrali, in sintonia con la legge periclea (che valorizza il ruolo riproduttivo della donna ateniese, anche di modesta condizione, e crea un regime di "racial reproduction").
Il IV capitolo ("Athenian identity in history and as history", 137-185) sottolinea l'assenza di questi temi dalla storiografia. Erodoto non fa cenno al mito dell'autoctonia e collega l'eccezionalità di Atene alla cultura politica democratica; Tucidide sembra considerare il "carattere nazionale" di un popolo né innato né immutabile. Sulla base di Thuc. I, 2, 5, la Lape ritiene che per lo storico l'eccezionalità degli Ateniesi risalga a fattori storico-ambientali e culturali; a me pare però che il passo dell'archeologia, che ricorda che l'Attica "era stata abitata sempre dalle stesse persone", riproponga in termini storici quell'autoctonia che veniva di solito presentata in termini mitici.
Il capitolo V ("Trials on citizen identity. Policing and producing the racial frontier", 186-239) analizza le procedure di controllo della cittadinanza: la dokimasia (degli efebi e dei magistrati), gli occasionali diapsephismoi (ne sono noti tre, nel 510/9, nel 445/4 e nel 346/5), le cause di usurpazione (graphai xenias). L'analisi si concentra sui casi di Eussiteo (Demosth. 57) e di Neera (Demosth. 59); il primo mostra quanto seriamente venisse considerata la possibilità che il corpo civico fosse inquinato da usurpatori; il secondo, in cui l'accusatore è lo schiavo naturalizzato Apollodoro, fa emergere una concezione della cittadinanza che rimanda al carattere più che alle qualità ereditarie. Sarebbe stato forse utile considerare anche il caso dei meteci, dei quali Lisia sottolinea insistentemente l'appartenenza alla comunità ateniese attraverso l'adesione ai valori cittadini.
Nel VI capitolo ("Myths and realities of racial citizenship", 240-283), infine, si considerano le forme di applicazione concreta del mito della "racial citizenship". Ad Atene non c'è rapporto fra immigrazione e naturalizzazione: la cittadinanza viene concessa su iniziativa ateniese a benefattori, che si comportano "da Ateniesi", e la terminologia accomuna i naturalizzati ai figli adottivi. Dopo la guerra del Peloponneso, che incoraggiò maggiori aperture, comprese naturalizzazioni di gruppo, nuove restrizioni si ebbero a partire dal 403: esse intenderebbero ristabilire l'unità civica dopo la profonda frattura della guerra civile, dato che la "racial citizenship" è anche elemento di unità e di solidarietà tra i membri della comunità. Può fornire elementi che confermano questa prospettiva il discorso di Cleocrito in Xen. Hell. II, 4, 20-21, che pure non viene qui considerato.
Il lavoro è indubbiamente interessante, benché riproponga questioni in parte già note: originalità e novità risiedono soprattutto nel taglio critico, legato all'idea di una identità civica di tipo razziale, e nel coraggio di adottare chiavi interpretative non "politicamente corrette". Mi sembra infine convincente l'approccio interdisciplinare, che si appoggia, nell'analisi storica, a testi letterari di natura diversa (teatrali, oratori, storiografici); apprezzabile in particolare l'analisi dello Ione, in cui il testo tragico è visto come un'opportunità di sottoporre a discussione la problematica della cittadinanza e dell'autoctonia in un contesto storico fortemente condizionato dalla legge periclea. Completano il volume un indice delle abbreviazioni, un'ampia bibliografia, per lo più in inglese, gli indici dei nomi e delle cose notevoli e delle fonti.
Cinzia Bearzot