Boudewijn Sirks: The Colonate in the Roman Empire, Cambridge: Cambridge University Press 2024, IX + 348 S., ISBN 978-1-009-17260-8, GBP 100,00
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Nei secoli IV e V d.C. vi sono notoriamente nell'Impero Romano persone che sono vincolate a un determinato patrimonio, nel senso che il suo detentore può richiamarle e imporre loro dei servizi. Il loro status, definito con il termine generale di colonato, è basso. Spesso si presume che fosse diffuso o addirittura una caratteristica generale di un cambiamento generale nello sfruttamento agricolo. Sono state formulate diverse teorie sulle sue cause: indebitamento cronico degli agricoltori, riorganizzazioni fiscali, affermazione del latifondo. Tuttavia già a metà del III secolo in Egitto esisteva un contratto simile ma di diritto privato, cosiddetta paramonè. L'inserimento nel censimento di un fondo sotto Diocleziano gli conferì un aspetto di diritto pubblico, facendo del proprietario del fondo il partner contrattuale. Questo implicava un cambiamento di status per il colono.
In qualche modo Sirks in questo libro, di notevole spessore, che per una fortunata coincidenza esce nello stesso anno di quello di Florian Battistella, Kaisertum und Kolonat. Untersuchungen zur Agrargesetzgebung Justinians und zu ihrem Kontext (Stuttgart 2024), si muove a ritroso partendo dalla situazione giustinianea, per la quale le nostre fonti sono pressoché complete. Si basa essenzialmente per le sue ricostruzioni sulle fonti giuridiche, secondo una prospettiva che si può definire di ricostruzione della codificazione nelle sue varie tappe.
Sirks, infatti, amplia lo spettro delle situazioni in cui un colono può venirsi a trovare. Innanzi tutto, egli ricorda come sia necessario studiare le leggi dei Codici Teodosiano e Giustinianeo tenendo conto del contesto in cui sono nate queste raccolte e le esigenze, le scelte e le modalità con cui i rispettivi compilatori hanno operato. Sirks, inoltre, evita di definire la condizione dei coloni ricorrendo a formule stereotipate, come quella di condizione intermedia tra liberi e schiavi, ma descrive le loro peculiarità ricavandole, caso per caso, dall'analisi delle fonti, fondamentalmente giuridiche.
Proprio questo percorso gli fa dare ampio risalto ad una legge di Giustiniano, che attesta l'esistenza di due diverse categorie di coloni. Si tratta di una legge che riprende un intervento dell'imperatore Anastasio, il quale aveva, con una norma probabilmente volta ad attenuare la condizione coloniaria, distinto dai tradizionali coloni adscripticii una nuova categoria di coloni che egli aveva chiamato "liberi", per distinguerli dai precedenti. La principale differenza tra le due categorie consiste nel fatto che gli adscripticii possedevano un peculio, che apparteneva ai loro padroni, mentre i coloni liberi diventano tali dopo trenta anni, mantenendo la piena disponibilità dei loro beni, pur essendo costretti a rimanere a coltivare la terra (CI 11.48.19). Giustiniano realizzò un ulteriore miglioramento con l'abolizione del senatusconsultum Claudianum nel 531-34, che implicava il venir meno delle conseguenze del matrimonio di un colono con una donna libera per quanto il padrone del colono lo potesse richiamare dal matrimonio.
Si tratta dell'applicazione della praescriptio longi temporis, che era stata già introdotta nel 400 per i coloni nella parte occidentale dell'impero da Onorio (CTh 5.18.1), che aveva stabilito che i proprietari dei coloni fuggitivi non potessero pretendere la loro restituzione dopo un periodo di trenta anni. I coloni di Onorio sono in realtà definiti originarii che, secondo un approfondito quanto trascurato studio di Pallasse, sarebbe un termine diffuso solo nella parte occidentale dell'impero, mentre in quella orientale si sarebbe affermato il termine equivalente adscripticii. In effetti le peculiarità che caratterizzavano la condizione degli adscripticii si erano manifestate già molto tempo prima della separazione delle due parti dell'Impero. Il principio in base al quale i coloni non potevano alienare i propri beni senza il consenso o all'insaputa dei proprietari è espresso da Valente già nel 365 (CTh 5.19.1). L'interpretatio visigotica non esiterà a definire tali beni peculium. Questo provvedimento, riprendendo un istituto classico riguardante gli schiavi e i filii familias, lo adatta ai beni dei coloni che diventano una sorta di pegno, lasciati in custodia ai proprietari come garanzia per il pagamento della capitatio. Tant'è vero che la disciplina del peculium sarà connessa a quella delle actiones adiecticiae qualitatis, che avevano come fine quello di mettere i padroni al riparo dalle conseguenze delle perdite economiche dei loro coloni.
Questo libro di Sirks, che suggella altri suoi importanti lavori sul tema, è particolarmente apprezzabile per la sua chiarezza e per la puntualità con la quale sono rilette e approfondite le fonti giuridiche. Una segnalazione particolare merita, per il rigore critico delle formulazioni, il cap. 5, The Colonate between Theodosius' Code and Diocletian and the Third Century, 438-293/ 268/249. Tra l'altro Sirks sottolinea opportunamente come, in ragione della natura amministrativa del colonato, la civitas o la natio del coloni, come risulta nel 409 in merito alla collocazione degli Scyri, non giocava un ruolo. Dopo il 476, con la fine dell'Impero romano, di fatto il colonato non sembra più avere un legame specifico con l'imposizione fiscale, quanto meno con il testatico, ma risulta essere una semplice condicio, ovvero uno status personale, definito dalla discendenza pur mantenendo il collegamento con una proprietà terriera.
Arnaldo Marcone